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L’informazione ai tempi della pandemia, abbuffarsi di notizie ci fa sentire potenti

Quante ore al giorno trascorriamo con l’indice che scorre in alto e in basso, sul display del nostro telefonino? Tante, anche se evitiamo di contarle. È così che il mondo entra in casa nostra, attraverso l’informazione. Ogni notizia ci arriva davanti, basta un click. E l’emergenza Covid19 ne è stato l’ennesimo esempio. Da un lato c’è chi scrive, dall’altro chi legge, legge e legge ancora su bacheche social invase di “ultim’ora”.

 

Non è un caso se la stampa è stata storicamente definita, da alcuni, “Quarto Potere”. Del resto, l’informazione ha un’influenza innegabile sull’opinione pubblica, poiché il giornalismo ricopre il ruolo di raccontare, spiegare, aggiornare, informare i cittadini su tutti quegli ambiti d’interesse che coinvolgono le diverse fasce della popolazione.

 

“Tra i principali motivi che portano le persone a scegliere una costante esposizione al flusso di informazioni e notizie, c’è il valore che quelle stesse informazioni assumono. Sono una sorta di ‘moneta sociale’: cioè  argomentazioni di discussione, che fungono da collante per il gruppo”, ci spiega la psicologa e psicoterapeuta aquilana Chiara Gioia.

 

Sta tutta qui l’importanza dell’informazione e dell’essere costantemente informati. Dalla cronaca all’attualità, dalla sanità all’economia, dalla cultura allo sport, dagli esteri alla politica. Orson Welles ne fece un film, dal titolo italianizzato, appunto, di ‘Quarto Potere’. La storia di una forza: quella della stampa e di un sistema comunicativo che, tuttavia – soprattutto nelle delicate e complesse fasi emergenziali, come il Covid – può inciampare e scivolare nell’eccesso. Nei giorni delle polemiche sui limiti di un diritto di cronaca sempre più a libera interpretazione – seguiti alla pubblicazione del video in cui la funivia del Mottarone cade, portando via con sé 14 vite spezzate – l’attenzione sui Media è tanta.

 

Solo pochi giorni fa, inoltre, il malore improvviso del calciatore danese Christian Eriksen, durante il match di Euro 2020 Danimarca-Finlandia, è andato in onda in diretta tv. Si è trattato di un episodio improvviso – è vero – avvenuto nel corso di una partita; ma qualche immagine scattata e trasmessa è sembrata poco rispettosa della privacy del giocatore e, logicamente, dei familiari che hanno assistito alla scena da dietro uno schermo: con teli bianchi e una bandiera a fare da scudo ad immagini delicate.

Eppure, storicamente, casi di cattiva informazione come avvenuto con l’incidente di Alfredino, caduto nel pozzo, hanno segnato la categoria: dando avvio a una ricca stagione di regolamentazione dell’etica giornalistica e segnando limiti ben precisi alla libertà d’informazione.

 

Perché essere informati ci fa sentire potenti?

“Acquisire informazioni ha insita l’dea di un potere individuale all’interno della società. Se un individuo è informato tende a percepire un’implementazione del proprio status sociale. Tuttavia, il sistema di informazioni può mostrarsi vacillante nell’era dei social: con numerosissime testate web e, di conseguenza, miriadi di informazioni che variano anche da un giornale all’altro, spesso in un arco temporale molto breve. Tanto da generare conoscenze fragili, instabili, che a loro volta inducono gli individui a continuare ad avere fame di informazioni.

La parola informazione deriva dal sostantivo latino Informatio (-nis): dal verbo informare, nel significato di dare forma alla mente, istruire, insegnare. L’azione dell’informare intende il dare forma e struttura a qualcosa

La necessità d’informazione può diventare, allora, quasi una pulsione.

“Se la fame colma un vuoto, agisce in modo simile la fame d’informazione. Il bisogno fisiologico, però, tende ad esaurirsi dopo aver soddisfatto le carenze biologiche – parlo quindi di fame, sete, sessualità… – mentre la pulsione ha la peculiarità di restare. Resta e cerca ulteriore soddisfacimento a prescindere da quello fisiologico. Così si può leggere l’avere fame di informazione: come metafora del non sentirsi mai sazi. Si cerca di ottenere sempre di più, spinti da una pulsione irrefrenabile che può avere origine da una mancata soddisfazione, del non sentirsi ‘nutriti’ abbastanza di una parziale o mancata forma. Se il cibo, quindi, ha un alto valore simbolico, di nutrimento, convivialità, abbondanza e socialità, così è anche per l’informazione: che diventa ritualizzazione di una ricchezza a livello individuale e sociale”. 

La troppa informazione e l’ansia che cresce

“Essere troppo informati e sovraccaricarsi di informazioni potrebbe nuocere al nostro benessere psicologico. Benché essere informati ci faccia sentire al sicuro e ci dia gli strumenti per sapere come affrontare una crisi o per rispondere a domande e dubbi che ci affliggono, troppe informazioni – soprattutto riguardanti situazioni negative – possono avere effetti psicologici avversi”. 

Effetti avversi che potrebbero interessare, soprattutto, chi vive l’attività di informarsi e di essere informato in modo disfunzionale. Cioè chi non è mai sazio di notizie e, in specie, di aggiornamenti su un determinato argomento. “È un meccanismo che si attiva soprattutto nelle persone ansiose. ‘Acquisisco tante informazioni e resto sempre informato, così placo la mia ansia’: è ciò che pensano in molti, ma sbagliano. Perché più ci si informa in continuazione, più – al contempo – continuano a mancare i giusti canali di decodifica di tutte le informazioni assunte e più l’ansia aumenta“. 

Il Doomscrolling, “la moda dell’abbuffarsi di notizie negative”

«Annegare lentamente dentro delle specie di sabbie mobili emotive, abbuffandosi di notizie negative». Si tratta di un fenomeno comune, tanto che ormai c’è un termine per definirlo: “doomscrolling”. Ne ha scritto Brian X. Chen sul New York Times. Chen ha osservato come – secondo alcuni dati raccolti da ricercatori – durante il lockdown il nostro tempo davanti allo schermo del telefono sia aumentato di almeno il 50 per cento.

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“Attualmente, il termine che si utilizza per indicare questo atteggiamento – più comune di quanto non si creda – è ‘Doomscrolling’: concetto menzionato per la prima volta su Twitter nel 2018. Anche se già con il tristemente noto crollo delle Torri Gemelle, nel 2001, è stato riscontrato un simile atteggiamento nei soggetti più inclini e più sensibili. Questi hanno manifestato un bisogno che va oltre la normale esigenza di informarsi: espresso consultando quasi compulsivamente le informazioni, i dati, le notizie“. 

 

“Il termine Doomscrolling è oggi popolare: che si stia scorrendo il social media preferito – Facebook, Twitter, Linkedin o Instagram – o semplicemente si stiano seguendo le notizie sul web si tratta sempre di doomscrolling ed è, ovviamente, logico collegare questa abitudine anche alla crescente diffusione del giornalismo via social, accentuatasi nell’ultimo decennio e diventata, oramai, la forma di giornalismo dominante”.

Informarsi sulle notizie negative: l’arma dei maniaci del controllo per non farsi trovare impreparati

“Si crea un circolo vizioso: una dinamica problematica tipica del soggetto ansioso, il quale continua ad essere insaziabile di notizie. Un processo favorito dallo sviluppo di nuove tecnologie, che – se non utilizzate in modo sano – generano nei soggetti impatti emotivi significativi. Questo bisogno di informazione rischia di innescare comportamenti di natura compensativa, come succede nelle persone che hanno problemi con il cibo o con l’alcoolÈ come se psichicamente si fosse attratti e sedotti dai segnali provenienti da cluster di informazioni negative, che vengono percepite come una minaccia dalla quale difendersi. Un problema che interessa, soprattutto persone iper-controllate: coloro che vogliono tenere tutto sotto controllo. Volontà che li porta ad avere un’ansia alla base che si nutre anche dell’informazione sui temi che più sono di loro interesse”. 

Si può parlare di dipendenza?

Scientificamente non si può fare una diagnosi, ma ci sono alcune caratteristiche similari a un bisogno disfunzionale che si avvicina sicuramente a una tipica dipendenza. Essendo, tuttavia, una criticità nuova e attuale c’è sicuramente bisogno di tempo per far sì che il problema venga eventualmente inserito, ad esempio, nel contesto specifico di un Manuale diagnostico-statistico”. 

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