Eutanasia, perché scegliere di morire è un diritto. “Liberi fino alla fine” è il messaggio che accompagna la raccolta firme per chiedere che l’Eutanasia venga legalizzata in Italia, attraverso un Referendum. Sì, perché la morte indotta in Italia è considerata un reato.
Il tema Eutanasia parte dall’idea di morte, per questo è complesso ed estremamente delicato. Parlarne e scriverne è quanto di più difficile si possa fare, ciò non ci esula comunque dal farlo. Perché si sta combattendo una battaglia che si trascina da tanto tempo e che, finora, non ha mai cambiato nulla nel nostro Paese.
Quando si parla di Eutanasia spesso si sottovaluta o si riflette poco su quale sia lo stato d’animo della persona la assiste un proprio caro gravemente malato. Da giorni, mesi o anni.
La morte, le sue molteplici interpretazioni, la concezione della vita che finisce, la ferita e il suo significato, anche psicologico e, infine, perché si sceglie l’Eutanasia: al termine di un percorso lungo, travagliato, pensato e, soprattutto, personale.
Ne abbiamo parlato con la psicologa e psicoterapeuta aquilana Chiara Gioia.
L’Eutanasia e la ‘buona morte’
“Parlare di eutanasia ci mette di fronte ad un tema eticamente sensibile. Etimologicamente è una parola di tradizione dotta, arrivata a noi attraverso un’attività di recupero. È una parola greca che appartiene al patrimonio antico, il cui significato è mutato nel tempo. Letteralmente significa ‘buona morte’, concetto apparentemente semplice, ma che – in realtà – è variamente interpretabile. Cosa debba intendersi per buona morte, infatti, dipende dai tempi, dai luoghi e dalle culture. Storicamente, poteva essere intesa una buona morte la morte eroica in battaglia o quella nelle guerre ‘sante’. Per qualcuno, purtroppo, una buona morte può essere addirittura il suicidio, ma sappiamo che così non è”, ci spiega Chiara Gioia.
“Una ‘buona morte’ – continua – può essere intesa sotto vari punti di vista, in particolare: fisico, etico e spirituale. In senso fisico, ad esempio, la buona morte può riferirsi ad una circostanza naturate o indotta, volontaria o involontaria. In senso etico può indicare la morte cui si va incontro come ‘cosa’ giusta, con accettazione, quasi come fosse il perfetto completamento della vita. In senso spirituale, infine, la morte è un trapasso necessario, non fine ma cambiamento”.
E psicologicamente?
“In questo caso, nell’ambito psicologico, la morte assume un significato altro rispetto a quelli già citati. Come simbolo la morte è ciò che distrugge l’esistenza. Quindi fa intendere ciò che viene meno, all’improvviso, che svanisce per sempre. È un concetto, inoltre, che introduce a mondi sconosciuti e dalle sfumature ambivalenti: si accosta a riti di passaggio. La morte è un mistero che viene inevitabilmente vissuto con angoscia, associato ad immagini di paura, senso di vuoto e solitudine, disperazione. Soprattutto, la morte porta ad interfacciassi con la dimensione della malattia e questo ci ferisce”.
La malattia e la ‘ferita’: non solo fisica
“La malattia è un disturbo. Un male che riguarda gli individui e la società. Se, da un lato, è letta come mancanza, squilibrio, alterazione, dall’altro lato è un indizio, terrificante, della nostra mortalità. Ci aiuta a prendere coscienza della stessa, di una morte inevitabile. Del resto, la malattia è una ‘crepa’ che si crea nel nostro corpo, ma ancor prima nella psiche. Sì, perché la lacerazione causata dalla presa di coscienza, appunto, ha un fortissimo impatto emotivo. Le ferite, cioè, ci fanno sentire vulnerabili e spesso ci condizionano“.
“Vero è – continua Chiara Gioia – che nel processo psichico le ferite guariscono, ma affinché ciò accada è necessario prendersi cura di esse, senza evitarle o ignorarle. Ogni ferita ha bisogno del suo processo: va riconosciuta, valutata, pulita e ricucita, per quanto possibile”.
Rispondere al perché si sceglie l’eutanasia non è affatto facile. Si può, però, provare a individuare i motivi che conducono all’eutanasia. Motivi che possono essere infiniti.
“Ci sono, alla base della scelta, possibili motivazioni personali, culturali, legate al dolore o, anche, alla perdita di speranza. Ciò che è importante, tuttavia, è prestare attenzione a chi vive queste situazioni drammatiche, di grande sofferenza, spesso silenziosa. Per tanto tempo queste persone stanno accanto a una persona cara malata. Viene spontaneo chiedersi se, allora, la morte diviene oggetto della domanda oppure il desiderio di non volerla pensare, considerare. Certo è che nel momento in cui muore una persona a noi cara, quella morte diventa il riflesso della nostra morte. Ecco quindi che dietro la sofferenza del malato c’è la sofferenza di chi lo cura”.
“Capire ed elaborare, da parte di chi siede al fianco della persona malata, giorno dopo giorno, la sofferenza del proprio caro, vuol dire impedire che la stessa sofferenza prenda strade che ci sfuggono di mano. Tantissime sono le famiglie in cui c’è una persona che si fa carico, più di altre, della cura di un caro malato. Trattasi del caregiver primario: un compito di responsabilità, che implica un investimento di energie spesso per anni e anni e che, per questo, necessita di attenzioni. Anche il caregiver deve essere assistito, protetto da rischi esterni ed educato a gestire la situazione delicata, anche a livello emotivo, senza esserne travolto dal punto di vista psicofisico e sociorelazionale. Il ‘fare’ del caregiver – conclude la psicologa e psicoterapeuta Chiara Gioia – è sicuramente mosso e portato avanti nel tempo con amore e dedizione, ciò, però, non lo solleva dall’essere comunque un compito gravoso. Con una ricaduta a livello psichico importante, soprattutto quando si maschera la propria preoccupazione di ciò che sarà un domani. Vanno considerati, poi, i livelli di stress, ansia e depressione a cui il Caregiver è soggetto. Per tutte queste ragioni è indispensabile accogliere ogni possibile strategia per evitare di farsi carico in solitudine di situazioni difficili, col rischio di esserne vittime e di provocare conseguenze ancor più pesanti di quelle già vissute”.