Il fenomeno Squid Game non si arresta e non si arrestano le polemiche. Annunciata ufficialmente la seconda stagione, continuano episodi di cronaca, soprattutto nelle scuole, che sembrano ispirati proprio al survival game in scena nella serie coreana targata Netflix.
Squid Game, tutto un gioco, tutta finzione.
Eppure, tanti sono stati i comportamenti scaturiti, forse, dalla visione di una serie tv che è diventata, in pochi giorni, un appuntamento immancabile. In tantissimi l’hanno vista, anzi divorata: rapiti dalla storia di partecipanti, uomini e donne, a quelli che all’inizio sembravano essere soltanto giochi infantili. Spinti da un disperato desiderio di un incredibile montepremi, visto come la ricchezza e la panacea per tutti i mali e i problemi personali. Ben presto, però, il gioco non diventa altro che un’autentica lotta al massacro tra persone disperate.
Come sono riusciti Squid Game e i suoi giochi al massacro a conquistare tante persone e a condizionarne le azioni?
Lo abbiamo chiesto alla psicologa e psicoterapeuta aquilana Chiara Gioia, la quale ci aveva già spiegato, precedentemente, come sia importante per i genitori fare da filtro rispetto ai messaggi che possono passare da questo nuovo fenomeno giovanile.
Non è una novità analizzare l’influenza che una serie tv o un particolare fenomeno in voga esercitano sulle persone, soprattutto quelle appartenenti a fasce d’età adolescenziali. Rockstar, modelle, attori, personaggi di film e serie tv cult – negli anni ’60 come anche oggi – hanno un grande potere su chi li segue e li ammira. Quanti di noi non hanno visto, almeno una volta, un adolescente con il taglio di John Lennon? O con l’acconciatura di Noel Gallagher? E quanti non hanno mai visto un bambino chiedere al parrucchiere il taglio del proprio calciatore preferito?
In casi come questi, tuttavia, l’influenza esercitata dalle serie tv – il discorso può essere generale, va oltre “l’effetto Squid Game” – non si limita a concetti puramente estetici, ma arriva a spingere i giovani a comportamenti sbagliati, a volte anche violenti.
Il gioco appartiene alla storia dell’uomo ed è sempre stata una costante nella vita di ogni individuo, fin dai suoi primi anni di vita. Gioco che ha un valore simbolico, si esprime con forme, immagini e significati diversi. Precisiamo che il gioco deve essere presente, perché è una delle vie migliori per crescere ed essere stimolati. L’Articolo 31 della Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza sottolinea proprio il diritto al gioco di ogni bambino, come principio di salute psichica dell’individuo futuro. Il gioco, infatti, permette di comprendere meglio la realtà che ci circonda, attraverso simulazione e rappresentazione”.
Nel mettere in atto, però, ciò che si vede in tv, sui social e sulle piattaforme streaming – con cui i giovanissimi hanno ormai maggiore dimestichezza degli adulti – i bambini agiscono istintivamente, senza alcuna programmazione, “al contrario l’habitus dell’adulto lo obbliga a considerare le possibili conseguenze delle sue azioni. Di comune c’è che, sia per il bambino che per l’adulto, è importante associare alla dimensione ludica le proprie emozioni, che consentono di far comprendere una o più parti di noi, in base anche all’intensitià con le quali esse si attivano, agendo sul palcoscenico psichico di ognuno”.
Influenze, nuove dinamiche in società: ma noi chi siamo?
“Oggi, molto probabilmente, per alcuni aspetti e per alcune dinamiche presenti nella nostra società, non si riesce più a sapere chi siamo. ‘È il fenomeno caratteristico che subentra non appena una situazione archetipica diventa schiacciante. Si può osservarlo, tra le persone che sono prese dal panico, strette in una grande folla mossa da un pensiero o da un sentimento collettivo. L’individuo non si rende conto di essersi dissolto, sebbene abbia perduto la testa proprio come tutti gli altri. La cosa avviene in modo impercettibile. Ci si dissolve dall’interno‘ (Jung). Ciò vuol dire che la tendenza all’omologazione all’altro, alle mode, ai comportamenti universalmente riconosciuti e accettati ci porta a voler imitare la collettività o i fenomeni del momento, allontanandoci dalla nostra vera essenza”.
Poi c’è il concetto della competizione
“Il desiderio, il bisogno di riuscire, il concetto di competizione è insito nella natura del gioco. Con riferimento specifico a Squid Game è chiaro come la stessa competizione, così come il ruolo della donna, vadano contro corrente rispetto al radicale cambiamento di costume che ha caratterizzato gli ultimi cinquant’anni. La dimensione di genere e la subalternità sociale che emergono dall’analisi della sfida dicono, chiaramente, che le donne sono destinate a perdere: ciò denota che la stessa dimensione di genere, in realtà, resta affascinata da un ‘gioco’ che rema contro l’affermazione sociale delle donne. Inoltre, si possono decodificare l’assenza di empatia e di solidarietà, per lasciare posto a fattori di condizionamento, sottomissione, violenza, sfruttamento, legati alle disuguaglianze e alle stratificazioni. Costrutti culturali che affermano il primato, oltre che del maschio, della classe sociale più ricca. Vincono i più forti e i più ricchi: la dinamicità insita nell’uomo e nel collettivo viene completamente annullata“.
“In questo, Squid game è lo specchio del modello relazionale sud coreano, ma dovremmo chiederci quanto e perché ci appartiene o, comunque, ci affascina in una qualche misura. Questa pregnanza sociale e l’adesione a certe tematiche rappresentano lo spirito del nostro tempo: una società liquida, dove tutti cercano di restare a galla omologandosi. Scopo principe e più aulico è invece la differenziazione“.
Squid Game e l’età giusta per vederlo
“L’interrogativo riguardo alla ‘liberta’ che si ha oggi nel vedere Squid game anche al di sotto dei 14 anni, o nella fase adolescenziale, porta a fare una semplice ma significativa considerazione. I minori non possiedono le competenze emotive e cognitive per rielaborare ed integrare dentro di sé nel modo giusto, a livello intrapsichico, la complessità di alcune esperienze e incontrano difficoltà anche nel differenziare la realtà virtuale da quella reale. Diverse ricerche hanno dimostrato che l’esposizione smodata a video-game violenti, serie o film crea un deficit di empatia, normalizzando comportamenti aggressivi, vessatori e cruenti. Pertanto, risulta interessante chiamare in causa una delle life skills dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (O.M.S.), dove si parla espressamente delle competenze di vita del saper prendere buone decisioni, competenza che a sua volta chiama in causa l’educazione al pensiero critico“.